venerdì 22 febbraio 2008

Banche e no global alleati nel delirio del Bel Paese

Nell'Italia progressista, i tassisti sono una pericolosa lobby. Le banche e l'alta finanza, no. C'è di che rimanere sconcertati, e infatti l'ultimo libro di Renato Besana, firma di Libero, si intitola proprio così: "Sconcerto italiano" (Solfanelli, pp. 112, euro 9,00).
L'orchestra del Belpaese stecca. Ma ciò che risulta meno comprensibile è l'alleanza implicita fra no global e grande industria, fra operai in bolletta e danarosi capitalisti. In mezzo ci sono i partiti di sinistra che fanno da cinghia di trasmissione. Incanalano il consenso del mondo del lavoro sindacalizzato e lo trasformano in voti. Voti preziosi, che vanno a sostenere governi "rossi". Con una caratteristica che dovrebbe risultare indigesta ai Cipputi: sono esecutivi che vanno a braccetto con banchieri e affini.
Come è possibile questa saldatura? Azzardiamo una risposta. Nel mondo post-socialista élite intellettuali, grande capitalismo e partiti progressisti hanno obiettivi convergenti. Agli ex-comunisti rimane un solo totem da adorare: lo Stato, inteso come monolite burocratico, mano risolutrice di ogni problema, dispensatore di "diritti" (e talvolta di privilegi). Poi ci sono i ricconi, che con lo Stato vogliono fare affari, magari al riparo dalla logica della concorrenza. Infine ci sono gli artisti, cui tocca il compito più ingrato: organizzare il consenso in cambio di visibilità, posti di potere, finanziamenti. Lo diceva anche Alberto Arbasino negli anni Settanta: amici scrittori, a questo punto vi conviene essere direttamente inquadrati come dipendenti statali, diventare “quadri” a tutti gli effetti, o almeno fondate un sindacato come si deve.
E se questa malsana alleanza fosse una nuova forma di corporativismo? Potrebbe essere. Ad esempio, come mai, si chiede Besana e noi con lui, «i vertici confindustriali e i baroni della finanza» gridano sempre "larghe intese" come un sol uomo? Perché il voto dà loro fastidio? Forse perché rischia di interrompere il banchetto.
L'insistenza con la quale il potere economico chiede ai politici di «smettere di litigare e concentrarsi sulle cose che servono all'Italia» nasconde una «implicita richiesta di favori, di solito prontamente ottenuti, alla faccia del contribuente strapelato». Una cosa è sicura: è la classe media a pagare il conto. I professionisti. E le piccole imprese. Scrive Besana: «Professioni e categorie, per secolare consuetudine, hanno fornito a chi ne facesse parte il quadro di riferimento che uno Stato come il nostro, avido e cialtrone, non è mai riuscito a garantire».
In altre parole, «hanno prodotto, e continuano a produrre, benessere e decoro» mentre la grande industria, nell'ultimo decennio, «ha licenziato, delocalizzato e piagnucolato aiuti governativi». Le liberalizzazioni di Bersani, in questa ottica, non sono altro che il tentativo di «liquidare il ceto medio», cioè «il blocco sociale che più di ogni altro si oppone alla sua egemonia». Insomma, i tassisti sono i nuovi kulaki da estirpare.
Per tenere buono il "proletariato", infine, si ricorre a debito e tasse in cambio di fantomatici servizi sociali. Così Cipputi è contento, e il potere economico, quello vero, se ne sta tranquillo come sempre.

Alessandro Gnocchi
© "Libero", 22/02/2008, p. 25

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